In questo periodo il Leopardi scrisse un’unica, ma grande poesia, la canzone Alla sua donna[1]. La canzone provocò in generale un’impressione sconcertante fra i lettori contemporanei: da una parte l’amico del Leopardi, il Giordani, ne cercò una spiegazione, ripresa poi anche in periodo piú tardo, in chiave di allegoria politica, per cui la donna del poeta sarebbe la libertà: è un fraintendimento piuttosto curioso e senza nessuna giustificazione interna, ma che può indicare un certo disorientamento da parte del lettore del tempo, anche provveduto, di fronte a questa singolarissima poesia leopardiana, che per noi è meno inspiegabile e isolata nello sviluppo leopardiano, sol che si pensi al Coro di morti del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie che di Alla sua donna riprende e sviluppa certe tonalità. D’altra parte, il Manzoni, in una discussione avuta a Stresa con il De Sanctis[2], affermava di non riuscire né a capire questa canzone, né a comprendere la qualifica di poeta data all’autore.
Quasi certamente l’incomprensione dei contemporanei, tanto macroscopica nel caso del Manzoni, fu provocata dai toni di questa poesia cosí apertamente non immaginosi, quasi rarefatti e scorporati, che potevano sembrare intellettualistici e in qualche modo metafisici. Solo il De Sanctis, nel saggio del 1855 e nelle pagine del saggio monografico dell’83, seppe intravedere l’eccezionale altezza di questo canto e non solo per la sua coerenza, per la sua suprema e sublime eleganza, ma per il fondo stesso che tutto ciò sosteneva, cogliendone sia la diagnosi sicura del «secol tetro» sia la tensione alle illusioni. La poesia Alla sua donna non è intellettualistica, ma è piuttosto animata da un impeto profondo, e la sua estrema lucidità di espressione manifesta la forza della sintesi leopardiana tra potenza razionale e forza lirica. De Sanctis intese anche meglio degli immediati contemporanei quello che lo stesso Leopardi aveva indicato nelle Annotazioni premesse a questa canzone nel Nuovo Ricoglitore di Milano del settembre 1825. In queste Annotazioni il Leopardi scriveva:
La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtú celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco piú che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e cosí chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché, fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio.[3]
Il Leopardi conduceva un lettore avvertito assai bene al centro di questa canzone, perché, mentre da una parte la qualificava come amorosa e parlava della sua donna come dell’unica da lui amata, insieme avvertiva: «La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi»: cioè la donna a cui egli si rivolge, pur legata indubbiamente anche al potente bisogno amoroso del Leopardi (quello che si era espresso sin dal Diario del primo amore fino agli accenni delle lettere romane del ’23) è insieme, inscindibilmente, questa donna che non si trova, con cui si fa l’amore col telescopio, dal Leopardi disperatamente ricercata come emblema sensibile e sostegno profondo di tutte le illusioni personali e storiche, nel crollo stesso delle illusioni aggravato ulteriormente dalle recenti delusioni romane.
Indubbiamente, questa canzone nella sua estrema tensione anche intellettuale è il frutto di un poeta che è “insieme” un pensatore, che ha affinato fino in fondo, nello Zibaldone, la sua capacità di elaborazione concettuale.
Ma Alla sua donna non è una pura costruzione intellettualistica e neppure quella «poesia della mente» di cui parlò il Russo con un’intuizione molto sollecitante, ma incompleta, perché questa donna suprema «che non si trova» è insieme il simbolo vivo delle illusioni e l’immagine, seppure scorporata, della donna e di un intenso bisogno di amore.
La poesia cioè, pur cosí ardua e quasi metafisica, nasce dal denso dell’esperienza leopardiana da cui estrae uno dei nuclei piú profondi e non è neppur priva di raccordi con l’intera delusione storica leopardiana ora approfondita in direzione esistenziale e come accelerata e aggravata sempre piú (senza con ciò accettare la pesante allegoria politica che vi scorgeva il Giordani). Come di colpo rivela il verso «Nel secol tetro e in questo aer nefando» (v. 42), che coinvolge le prospettive storiche del Leopardi, i suoi dissensi col secolo, in cui la vita ristagna, privo com’è di ogni fervore politico e spirituale, e quindi sommamente impoetico, e del quale proprio in questi mesi aveva ripreso nello Zibaldone la severa diagnosi. Cosí in un pensiero del novembre 1823 dove parla della lingua e letteratura dell’Italia e della Spagna, approfondendo i legami fra lingua e letteratura e indicando la loro debolezza causata dalla “nullità politica” di queste nazioni, il Leopardi arriva a concludere, dietro la delusione della tragica fine dei moti italiani del ’20-21 e della ricaduta recentissima della Spagna nell’assolutismo dopo il breve affiorare della libertà, che ora la Spagna e l’Italia «sono immobili e gelate, e nel pieno dominio della morte» [3860][4]. Oppure, per capire come, pur soffrendo la negatività del periodo in cui viveva, egli non mancasse mai di impulsi, di volontà, di speranze, si veda il suo pensiero sulla Spagna che aveva saputo liberarsi in altra epoca dal dominio dei Mori e che viene paragonata alla Grecia dominata dai Turchi: «E voglia Dio che anche in quest’ultima parte [la liberazione dal dominio straniero] la storia de’ greci rispetto a’ maomettani sia conforme a quella degli spagnuoli, com’ella è nel resto, e come i greci oggi procurano» [3583][5].
D’altra parte, nei pochi pensieri che il Leopardi scrisse nel periodo romano, si assiste, nella piccola antologia di passi di antichi che insistevano sulla miseria dell’infelicità umana, a un allargarsi del sentimento della negatività della vita che investe il mondo piú lontano, quello classico, la cui visione positiva era stata dal Leopardi già in sede poetica (Bruto minore, Ultimo canto di Saffo), come sappiamo, profondamente incrinata.
Al centro di questa canzone sta proprio la difficoltà leopardiana di far vivere le illusioni anche concepite come “illusioni”, come vanità, mentre precedentemente egli si era sforzato di far vivere le illusioni pur sapendo che erano “illusioni”.
La canzone dunque ha anche una pregnanza storica e personale non circoscrivibile in una pura e semplice costruzione intellettualistica e metafisica.
Un’ulteriore precisazione sulla base effettiva di questa poesia è data da una lettera che il Leopardi scrisse il 23 giugno del 1823 al giovane letterato belga Jacopssen conosciuto a Roma. A lui il Leopardi aveva mandato precedentemente una lettera, andata perduta, alla quale lo Jacopssen rispose a sua volta il 2 giugno 1823 insistendo su alcuni temi in qualche modo vicini alle posizioni leopardiane, e cioè l’infelicità della vita, la bellezza e la vanità delle illusioni, per cui l’uomo, vista la loro irrealizzabilità, dovrebbe rassegnarsi a una specie di saggezza stoica[6]. D’altra parte, la lettera dello Jacopssen insiste su di una specie di tentativo leopardiano, espressogli nella lettera perduta, di ricerca di saggezza, di non sofferenza, nell’impossibilità di attingere la felicità. Su questa via parve al Leopardi che lo Jacopssen lo seguisse anche troppo. Di qui la lunga risposta in francese, del 23 giugno.
Questa lettera spiega assai bene, e da vicino, la situazione da cui nasce Alla sua donna, la difficoltà di far vivere le illusioni anche come tali e d’altra parte l’aspirazione, portata a un livello sempre piú radicale, piú intimo e piú personale, a un’immagine suprema da salvare da questa delusione totale e tanto piú lontana e irraggiungibile nella condizione della vita mortale; immagine a cui il poeta sente l’intimo bisogno di rivolgersi in un colloquio senza risposta, in una forma di adorazione.
La parte centrale di questa lettera allo Jacopssen chiarisce anche come il Leopardi sulla via dell’astensione, del non soffrire, si muovesse assai male, sentendola come una via non personalmente congeniale.
Anche nel periodo successivo alle Operette morali, nel ’25-26, quando tradusse il Manuale di Epitteto, riaffiorerà piú fortemente nella prospettiva leopardiana la morale dell’astensione, ma anche allora, nella premessa a quella traduzione, risalta chiaramente come egli, accettando momentaneamente questa morale in qualche modo rinunciataria, le contrapponesse il desiderio ardente, e tanto piú suo, di una morale invece combattiva, eroica, di impegno, di lotta che è certamente la morale piú “leopardiana”:
Sans doute, mon cher ami, ou il ne faudrait pas vivre, ou il faudrait toujours sentir, toujours aimer, toujours espérer. La sensibilité ce serait le plus précieux de tous les dons, si l’on pouvait le faire valoir, ou s’il y avait dans ce monde à quoi l’appliquer. Je vous ai dit que l’art de ne pas souffrir est maintenant le seul que je tâche d’apprendre. Ce n’est que précisément parce que j’ai renoncé à l’espérance de vivre. Si dès les premiers essais je n’avais été convaincu que cette espérance était tout-à-fait vaine et frivole pour moi, je ne voudrais, je ne connaîtrais même pas d’autre vie que celle de l’enthousiasme. Pendant un certain temps j’ai senti le vide de l’existence comme si ç’avait été une chose réelle qui pesât rudement sur mon âme. Le néant des choses était pour moi la seule chose qui existait. Il m’était toujours présent comme un fantôme affreux; je ne voyais qu’un désert autour de moi, je ne concevais comment on peut s’assujettir aux soins journaliers que la vie exige, en étant bien sûr que ces soins n’aboutiront jamais à rien. Cette pensée m’occupait tellement, que je croyais presque en perdre ma raison.
En vérité, mon cher ami [tutta la lettera è intessuta su questo tono malinconico e affettuoso, uno dei toni piú profondi della cordialità umana leopardiana, che riporta poi anche a quel senso degli altri, che sarà cosí importante nello svolgimento successivo], le monde ne connaît point ses véritables intérêts. Je conviendrai, si l’on veut, que la vertu, comme tout ce qui est beau et tout ce qui est grand, ne soit qu’une illusion. Mais si cette illusion était commune, si tous les hommes croyaient et voulaient être vertueux, s’ils étaient compatissans, bienfaisans, généreux, magnanimes, pleins d’enthousiasme; en un mot, si tout le monde était sensible (car je ne fais aucune différence de la sensibilité à ce qu’on appelle vertu), n’en serait-on pas plus heureux? Chaque individu ne trouverait-il mille ressources dans la société? Celle-ci ne devrait-elle pas s’appliquer à réaliser les illusions autant qu’il lui serait possible, puisque le bonheur de l’homme ne peut consister dans ce qui est réel [È evidente che in questo stesso momento in cui Leopardi riafferma la vanità delle illusioni tende però continuamente a esse come condizione che renderebbe l’uomo felice nell’impossibilità del piacere reale]?
Dans l’amour, toutes les jouissances que éprouvent les âmes vulgaires, ne valent pas le plaisir que donne un seul instant de ravissement et d’émotion profonde. Mais comment faire que ce sentiment soit durable, ou qu’il se renouvelle souvent dans la vie? oú trouver un cœur qui lui réponde? Plusieurs fois j’ai évité pendant quelques jours de rencontrer l’objet qui m’avait charmé dans un songe délicieux. Je savais que ce charme aurait été détruit en s’approchant de la réalité. Cependant je pensais toujours à cet objet mais je ne le considérais d’áprès ce qu’il était; je le contemplais dans mon imagination, tel qu’il m’avait paru dans mon songe. Était-ce une folie? suis-je romanesque? Vous en jugerez.
Il est vrai que l’habitude de réfléchir, qui est toujours propre des esprits sensibles, ôte souvent la faculté d’agir et même de jouir. La surabondance de la vie intérieure pousse toujours l’individu vers l’extérieure, mais en même temps elle fait en sorte qu’il ne sait comment s’y prendre. Il embrasse tout, il voudrait toujours être rempli; cependant tous les objets lui échappent, précisément parce qu’ils sont plus petits que sa capacité. Il exige même de ses moindres actions, de ses paroles, de ses gestes, de ses mouvemens, plus de grâce et de perfection qu’il n’est possible à l’homme d’atteindre. Aussi, ne pouvant jamais être content de soi-même, ni cesser de s’examiner, et se défiant toujours de ses propres forces, il ne saint pas faire ce que font tous les autres.
Qu’est-ce donc que le bonheur, mon cher ami? et si le bonheur n’est pas, qu’est-ce donc que la vie? Je n’en sais rien; je vous aime, je vous aimerais toujours aussi tendrement, aussi fortement que j’aimais autrefois ces doux objets que mon imagination se plaisait à créer, ces rêves dans lesquels vous faites consister une partie du bonheur. En effet il n’appartient qu’à l’imagination de procurer à l’homme la seule espèce de bonheur positif dont il soit capable. C’est la véritable sagesse que de chercher ce bonheur dans l’idéal, comme vous faites. Pour moi, je regrette le temps oú il m’était permis de l’y chercher, et je vois avec une sort d’effroi que mon imagination devient stérile, et me refuse tous les secours qu’elle me prêtait autrefois.[7]
In questo discorso, pieno d’implicazioni e di apparenti contraddizioni, il Leopardi viene profilando quella che sarà l’associazione di base della canzone Alla sua donna, cioè (nella mancanza della realtà e nella difficoltà di far vivere persino le illusioni) il proiettarsi almeno con l’immaginazione alla ricerca di questo piacere non durevole. Va anche ricordato, a ulteriore comprensione della genesi di questa canzone, che, nello stesso periodo, nel 1823, il Leopardi aveva intrapreso e portava avanti una piú intera lettura di Platone, sollecitato anche da ragioni pratiche (l’allestimento di una edizione integrale di Platone per conto dell’editore De Romanis), ma con prospettive assai diverse da quelle per le quali Platone aveva in quel periodo un forte rilancio nella cultura occidentale ed europea, non cioè per le ragioni spiritualistiche, che spingevano a una ripresa di Platone contro il materialismo; e Leopardi, infatti, in tutto il suo Zibaldone non fa altro che attaccare Platone (suo costante termine di polemica come si riscontra nel Dialogo di Plotino e di Porfirio), il suo sistema delle idee, tutto ciò che conduce a idee di assoluto, proprio da un punto di vista sostanzialmente materialistico.
Ma in questo stesso periodo la fortissima attrazione del Leopardi verso Platone era relativa non solo al fascino poetico della prosa platonica, che in qualche modo sarà uno degli elementi di stimolo entro certo tono delle Operette morali, nell’anno successivo, ma anche a quella che egli chiamava la sublime capacità di “astrazione” platonica, cioè la creazione di un mondo che considerava filosoficamente assurdo ma di cui sentiva il fascino, appunto, di una “sublime astrazione”.
Anche questi elementi platonici sorreggono ulteriormente il tono e la costruzione di Alla sua donna, non solo per l’esplicito ricordo degli archetipi platonici («Se dell’eterne idee / l’una sei tu, cui di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita», vv. 45-47), che è una delle tante ipotesi (come quella del mitico Eden e addirittura dell’Aldilà cristiano, per indicare un avvenire ignoto e lontano e non è quindi un’adesione filosofica al sistema platonico delle idee) che il Leopardi si prospetta per allontanare piú possibile questa suprema immagine della realtà presente.
La canzone Alla sua Donna trova dunque uno stimolo nelle letture platoniche proprio per l’altissimo tono e il sublime processo di astrazione, per far vivere questa specie di immagine pura, la donna «che non si trova», la donna che appartiene a mondi diversi da quelli terreni.
Naturalmente questo chiaro raccordo non deve far pensare a qualcosa di unicamente e puramente filosofico e intellettualistico; nella lirica Leopardi ha come piú intimamente fuso sensibilità e intelletto, le sue capacità poetiche e le sue raffinate, sottili capacità di enucleare concetti, e li ha fusi in una zona piú interna del “cuore”, per riprendere un’espressione desanctisiana, li ha portati in qualche modo in condizioni ancora piú intime e assolute, cosí che egli si vieta ogni forma di effusione, di sentimentalismo esplicito ed eloquente.
Questa canzone è infatti la piú lontana dalle forme della lirica eloquente per cui tanto Leopardi si era battuto in precedenza: essa abolisce ogni forma di colore e ogni elemento corposo e plastico, tutta ridotta a disegno, a ritmo, a una specie di luce con qualcosa di misterioso e di impalpabile.
Ma tutto ciò avviene non perché Leopardi abbia separato crudamente l’intelletto dal cuore, dalla sensibilità; secondo lo schema desanctisiano egli li ha portati alla fusione piú interna e non ha privato se stesso di una forma di tensione. Sicché questa canzone non è una poesia gelida, come poteva apparire nel giudizio del Manzoni, è una poesia che ha una specie di “calore bianco”, il calore dell’incandescenza, a cui il poeta ha portato gli elementi sensibili del cuore e della passione, bruciandoli e purificandoli fino a una fusione piú intima, e soprattutto togliendo ogni “piú” di effusione, di sentimentalismo, di pittoresco, di corposo: donde la natura di questa canzone, che si profila in un inno tutto ritmo, tutto disegno e non colore, di armonia interiore, in una specie di voce piú profonda e piú pura nell’animo.
A questa specie di processo di ascesi interiore (che non è tanto rinuncia preventiva di sentimento e di passione, quanto il loro riassorbimento e purificazione piú interna) corrispondono anche il tono, il linguaggio, la stessa metrica.
Per questa canzone Leopardi ha inventato ulteriori forme metriche, scegliendo una stanza fissa quanto a numero di versi (cinque stanze di undici versi), ma all’interno di queste stanze ha sconvolto ogni ordinamento metrico precedente e tradizionale, operando l’incontro di endecasillabi e settenari in modo estremamente variato, non concordante di strofa in strofa, ma assecondante il piú possibile il movimento delle singole strofe: ora piú slanciato (come nella prima strofa) con il prevalere dei settenari, ora piú compatto e meditativo, come nella seconda strofa in cui prevalgono gli endecasillabi: un giuoco metrico in cui si vede come il Leopardi sia andato in questa poesia tanto piú distaccandosi dalle forme tradizionali delle canzoni e sia venuto cercando una forma anche metrica tutta sua originale e tanto piú aderente ai movimenti complessi e sinuosi di questa singolare canzone.
Per quanto riguarda il linguaggio, egli tende il piú possibile a rifiutare tutto quello che ci può essere di troppo esteriormente sentimentale e plastico, e adopera le forme piú pertinenti a questa ricerca di ritmo, di armonia e di disegno.
Gli accenni paesistici che nella prima e nella quarta strofa non mancano, sono infatti completamente privi di ogni colore e di ogni tocco pittoresco: il paesaggio iniziale dove si parla dei campi («O ne’ campi [...] il riso», vv. 5-6) risolve la bellezza di un paesaggio in una espressione piú interna; e, nella quarta strofa, dove si parla delle valli e dei poggi, è evitato tutto quello che potrebbe essere particolareggiatamente pittoresco.
Anche lo studio delle varianti conferma questa ricerca[8]. Il penultimo verso è quanto mai indicativo; Leopardi ha tolto i toni troppo apertamente drammatici che suggeriva l’aggettivazione degli anni («anni vernali», anni invernali, o «luridi») giungendo all’espressione piú assoluta, piú priva di colore o di aperta drammaticità: «Di qua dove son gli anni infausti e brevi».
Il De Sanctis, che impose l’attenzione e la valutazione di questa canzone, parlò di una «vagabonda fantasticheria», come se essa mancasse di una specie di filo conduttore, di organizzazione. In realtà, le strofe non fanno che portare avanti il modulo fondamentale (la lontananza estrema di questa immagine da salvare da ogni contaminazione terrena e mortale, ribadita nel finale delle strofe) riprospettandolo non in una forma di vagabonda fantasticheria ma con una sua interna coerenza e saldezza.
Fin dall’inizio, nella prima strofa, «Cara beltà [...] viso», quello che preoccupa Leopardi è di mostrare anzitutto la lontananza assoluta dell’immagine di bellezza, la sua non chiarezza, lontana e mal perfettamente rappresentabile, come di qualcosa che si cela continuamente. L’unica presenza di questa immagine è nel sonno («Fuor se nel sonno»), quando essa viene come a destare il cuore del poeta, oppure nella meditazione solitaria, nei campi «ove splenda / piú vago il giorno e di natura il riso», insomma in momenti eccezionali, e comunque il piú lontano possibile dalla vita associata, di cui il Leopardi sentiva ora sempre piú la limitatezza e la negatività.
Nell’ultima parte Leopardi tende infatti a separare questa immagine da ogni possibilità di vita nel presente (forse tu beasti il secolo dell’oro), e a proiettarla in un passato lontano e mitico, in un ignoto avvenire. Nel presente questa immagine non ha vita concreta:
Cara beltà che amore
lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
fuor se nel sonno il core
ombra diva mi scuoti,
o ne’ campi ove splenda
piú vago il giorno e di natura il riso;
forse tu l’innocente
secol beasti che dall’oro ha nome,
or leve intra la gente
anima voli? o te la sorte avara
ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara? (vv. 1-11)
La strofa ha una singolare eleganza e perfezione di taglio, una snellezza che fa ripensare, in sede di precedenti esperienze leopardiane, alla canzone Alla Primavera: questa, con le sue forme dubitative, ipotetiche, la ricchezza d’incisi e d’inversioni, rappresentava un’esperienza che qui viene ripresa, non però solo per un’eleganza esterna, ma a rendere il movimento stesso come dubitoso, meditativo, coincidente con questa sublime astrazione.
Viva mirarti omai
nulla spene m’avanza;
s’allor non fosse, allor che ignudo e solo
per novo calle a peregrina stanza
verrà lo spirto mio. Già sul novello
aprir di mia giornata incerta e bruna,
te viatrice in questo arido suolo
io mi pensai. Ma non è cosa in terra
che ti somigli; e s’anco pari alcuna
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, cosí conforme, assai men bella. (vv. 12-22)
La seconda strofa viene a ripresentare questo senso dell’impossibilità di vita reale dell’immagine, legata piú fortemente alla situazione personale del poeta che non ha piú nessuna speranza di poterla contemplare. Inizialmente Leopardi aveva scritto «E veder viva», poi scelse la parola, tanto piú sua e piú tardi applicata ancora molte volte nella sua poesia, «mirarti», che implica un vedere con una volontà di contemplare.
«Nulla spene m’avanza»: il Leopardi scelse «spene», invece di «speme», non solo per evitare una cacofonia, ma in armonia con la ricerca di forme pellegrine, rare, auliche, che egli perseguiva, coerentemente a tutto un lungo esercizio svoltosi durante le canzoni del ’21-22. Qui tuttavia non c’è né ricerca di maggiore eloquenza, né quella di una maggiore difficoltà che Leopardi nelle canzoni precedenti motivava come un incentivo a far pensare il lettore, a suscitare in lui impressioni piú vive, piú sostanziose. Qui lo stile “pellegrino” è coerente a queste forme di suprema intima perfezione ed eleganza, di una rarità di linguaggio che compete alla stessa rarità del tema trattato.
«S’allor non fosse [...] mio»: è un’altra di queste ipotesi; e questa è appunto una canzone colma di forme ipotetiche, in cui il “se” domina, cosí come nell’uso dei modi predominano il condizionale e il congiuntivo, le forme del possibile e dell’eventuale, del desiderato, non dell’esistente, che il poeta sviluppa sulla base della constatazione dell’impossibilità ormai d’incontrare una donna che fosse interamente coincidente con questa suprema immagine (un “ormai” denso di significato per Leopardi, perché evidentemente presuppone una zona giovanile tra infanzia e gioventú in cui egli aveva avuto la speranza di vederla viva).
Già il De Sanctis, nel saggio su questa canzone, osservava molto chiaramente che qui non vi è nessuna adesione del Leopardi a precise credenze (della leggendaria età dell’oro o dell’aldilà cristiano) che sono anzi ulteriormente negate in quanto ridotte a pure ipotesi di uguale valore.
«Già sul novello [...] men bella»: al centro della stanza Leopardi sviluppa quel motivo dell’“ormai”, riferendolo a un periodo precedente della sua vita e addirittura all’inizio della sua «giornata incerta e bruna»: una determinazione del suo passato, misurata e priva della violenza che altre volte simili ricordi nostalgici e accorati presero nella sua poesia, ma da sentire su di un’interna tensione, in una forma intensissima di ascesi e purificazione, non certo gelida e unicamente razionale.
Egli dice: all’inizio della mia vita io t’immaginai come guida e compagna in questo «arido suolo»; un’espressione in cui Leopardi è giunto a un’assolutezza intensamente sobria ed essenziale, come successivamente nelle altre determinazioni negative (il «secol tetro», l’«aer nefando», la «funerea vita», vv. 42 e 49), in modo analogo alle forme espressive dell’ultima parte dell’Ultimo canto di Saffo, dove l’espressione di stati assoluti e profondi dell’esistenza umana richiedeva un tipo di linguaggio ugualmente assoluto ed essenziale.
Il Leopardi ha compiuto tutta un’opera di riassorbimento delle forme piú violente da cui era partito nelle canzoni del ’21-22, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone o già prima in Ad Angelo Mai, che traducevano poeticamente la risoluta squalifica e a volte ripugnanza morale per i disvalori contro cui combatteva.
«Ma non è cosa in terra»: appena il poeta ha indicato tale speranza della sua gioventú, di poter avere compagna una donna, come questa che non si trova, ecco che subito il movimento tipico della canzone riporta immediatamente all’estrema e sottile negazione della possibilità di una sua vita in terra. Non c’è cosa in terra che ti possa somigliare e se anche qualcuna ti fosse simile o addirittura pari nel volto, negli atti, nel linguaggio, tuttavia anche cosí, quasi coincidente, sarebbe assai meno bella, perché farebbe parte di questa realtà che tutto contamina e sarebbe presa nelle spire della vita mortale che tutto deturpa.
Fra cotanto dolore
quanto all’umana età propose il fato,
se vera e quale il mio pensier ti pinge,
alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
questo viver beato:
e ben chiaro vegg’io siccome ancora
seguir loda e virtú qual ne’ prim’anni
l’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
e teco la mortal vita saria
simile a quella che nel cielo india. (vv. 23-33)
«Fra cotanto [...] il fato»: la terza strofa viene cosí a sviluppare, in forma di ipotesi e con un’apparente contraddizione, la negazione della vita in terra di questa immagine di donna; Leopardi in un primo tempo aveva scritto «Quanto all’umana età prescrisse il fato», che era forma se non violenta certo piú dura e perentoria, poi scelse questa forma piú indiretta, vuotata di ogni enfasi.
«Se vera [...] beato»: sarebbe beato questo vivere; «E ben chiaro vegg’io»: io vedo chiaramente come ancora in questa mia situazione dolente e disperata l’amore tuo mi farebbe seguire la lode e la virtú come avveniva nei miei primi anni.
Anche ciò è prospettato in forma di pura ipotesi, chiusa con un movimento piú complesso e piú sinuoso dagli ultimi versi, dove il Leopardi precisa che il cielo non ha aggiunto nessun conforto ai nostri affanni; nessun conforto, come sarebbe la tua presenza e sí che la vita mortale sarebbe con te «Simile a quella che nel cielo india». In questo intreccio del finale, dove si avverte come per la canzone Leopardi abbia ripreso coscientemente moduli stilistici soprattutto dal Petrarca e dal linguaggio piú scorporato del Paradiso e di certe zone del Purgatorio di Dante, egli riprospetta continuamente quello che sarebbe e quello che non è, quello che potrebbe dare la presenza in terra di questa donna che non si trova e la sua impossibilità a vivere effettivamente.
Per le valli, ove suona
del faticoso agricoltore il canto,
ed io seggo e mi lagno
del giovanile error che m’abbandona;
e per li poggi, ov’io rimembro e piagno
i perduti desiri, e la perduta
speme de’ giorni miei; di te pensando,
a palpitar mi sveglio. E potess’io,
nel secol tetro e in questo aer nefando,
l’alta specie serbar; che dell’imago,
poi che del ver m’è tolto, assai m’appago. (vv. 34-44)
«Per le valli [...] per li poggi»: la quarta strofa viene inizialmente riportando a una zona come piú sensibile, tanto che vi si è indicato un ritorno di forme piú idilliche, paesistiche. In realtà anche questa strofa, e persino i suoi primi versi, mostrano ulteriormente come il paesaggio, qui richiamato dalla prima strofa, è sentito in una direzione del tutto antipittoresca. Basti pensare alla nudità delle parole che vengono adoperate: non c’è neppure l’appoggio di un aggettivo ed è evitato ogni tocco di colore.
«Per le valli [...] m’abbandona [...] e per li poggi [...] giorni miei»: anche qui non c’è tanto il ritorno di elementi apertamente elegiaci quanto l’insistenza dei perduti «desiri» e della perduta speranza; il riprospettarsi cioè dell’esperienza leopardiana in questo momento è visto in coincidenza con la prospettiva della canzone come una dolente autoassicurazione della totale perdita delle illusioni.
«[...] di te pensando, / a palpitar mi sveglio»: anche qui i movimenti piú intensi hanno perduto, proprio con una forma di riassorbimento interno, ogni possibile foga e impeto, vibrano delicatamente e profondamente in quanto si precludono ogni forma troppo espansiva.
«E potess’io [...] assai m’appago»: in questi versi si esprime non tanto la speranza quanto il desiderio portato avanti fino all’assurdità, il desiderio paradossale, vietato proprio da ciò che il Leopardi conseguentemente dice e cioè che da questo suolo tetro e da questo aere nefando, da questo mondo corrotto (di cui egli ha condensato nuovamente con una parola cosí intensa e sobria tutte le qualità negative: «tetro», privo di ogni vivacità, di ogni vitalità e «aer nefando»), non può venire una speranza, ma solo l’assurdo desiderio («che dell’imago [...] m’appago»: sono ridotto ad appagarmi della sola immagine, il che comporta un accenno tutto di mestizia e non di consolazione) di poter almeno conservare durevolmente questa vaga immagine che è messa in dubbio non solo nella sua consistenza reale, ma anche nella sua durevolezza, poiché essa è appunto qualcosa che compare di quando in quando e non si può neppure mantenere saldamente nel proprio animo.
Se dell’eterne idee
l’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e piú vaga del Sol prossima stella
t’irraggia, e piú benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi. (vv. 45-55)
L’ultima strofa porta la canzone alla sua piú alta conclusione: è una strofa di taglio perfetto, costruita in un unico periodo che va avanti fino ai due penultimi versi prospettando ancora per l’ultima volta l’ipotesi piú lontana, che questa immagine sia addirittura una delle idee platoniche, un archetipo, qualcosa che vive in altri mondi, illuminati da altre stelle, ma il cui incanto assurdo e paradossale, proprio dagli ultimi due versi, con il loro suono melanconico e freddo, è mostrato nella sua impossibilità di vivere in contatto, in un colloquio. Tanto che Leopardi chiuderà la canzone con un atto di pura adorazione senza risposta, con la preghiera che venga al massimo raccolto questo suo inno, che la donna corrisponda in un modo qualsiasi.
«Se dell’eterne [...] vestita»: se tu sei una delle eterne idee (si osservi la forma al solito peregrina ed elegantissima con cui si svolge il discorso intessuto di richiami, delle forme piú platoniche del Petrarca e di Dante: «l’eterno senno», «ne’ superni giri»), a cui il senno divino, quasi sdegnandosi di far scendere in terra una cosa di tanto valore, ha vietato di vestirsi di forma sensibile e di provare in corpi destinati alla morte gli affanni della vita. E qui la vita è tutta vista in funzione della morte, tutta investita della sua ombra, ormai totalmente e senza distinzione di età, come invece nell’Ultimo canto di Saffo in cui l’ombra della morte calava sulla vecchiaia.
«O s’altra terra [...] t’accoglie»: o se una terra diversa dalla nostra ti accoglie nei superni giri dei cieli, tra mondi innumerabili e t’illumina una stella piú vaga del sole prossima a quella terra.
Il Leopardi ha portato sino in fondo questa ipotesi, fino al punto in cui egli al regno incontaminato in cui vive la donna contrappone il “di qua”, la dimensione terrena in cui egli vive, dove la vita è cosí infausta, caduca e breve.
«Questo d’ignoto amante inno ricevi»: espressione che si allontana persino da quelle forme presenti ancora nell’Ultimo canto di Saffo, in cui il bisogno della corrispondenza era portato semmai al senso della «dispregiata amante» della natura, Saffo. Qui c’è addirittura un «ignoto amante» che non vuole neppure far conoscere la sua precisa esistenza e che si consuma tutto in questa specie di adorazione. Donde quel tono, quasi liturgico, che ha la canzone, anche se di una singolarissima religione. Proprio all’altezza di questa lirica, nello Zibaldone il Leopardi infatti, pur meditando su temi come l’imperfezione del mondo, non accetta la soluzione religiosa che altre personalità potevano trarre come conseguenza di simili meditazioni (il mondo è imperfetto, dunque si deve credere in un’altra realtà perfetta).
1 Tutte le opere, I, p. 22.
2 Come narrano lo stesso De Sanctis e poi il suo allievo Augusto Camillo De Meis nel discorso commemorativo tenuto a Bologna nel gennaio 1884 (cfr. F. De Sanctis, Pagine di vita, raccolte per le persone colte e per le scuole da M. Scherillo, precede la Commemorazione del De Sanctis di A.C. De Meis, Napoli, Morano, 1915).
3 Tutte le opere, I, p. 57.
4 Tutte le opere, II, p. 974. L’estrema battaglia dei liberali spagnoli contro la tensione della Santa Alleanza (Trocadero) è del 1° settembre 1823.
5 Tutte le opere, II, p. 895.
6 Cfr. Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di F. Moroncini cit., III, pp. 9-11.
7 (Senza dubbio, mio caro amico, o bisognerebbe non vivere, o bisognerebbe sempre sentire, sempre amare, sempre sperare. La sensibilità sarebbe il piú prezioso dei doni, se si potesse farlo valere, o se ci fosse nel mondo qualcosa a cui applicarlo. Io vi ho detto che l’arte di non soffrire è adesso la sola che io cerco di imparare; e ciò avviene perché ho rinunciato alla speranza di vivere. Se fin dalle prime prove non fossi stato convinto che questa speranza era interamente vana e frivola per me, non vorrei, non conoscerei altra via che quella dell’entusiasmo. Durante un certo tempo ho sentito il vuoto dell’esistenza come se fosse stato una cosa reale che pesasse rudemente sulla mia anima. Il niente delle cose era per me la sola cosa che esistesse. Mi era sempre presente, come un terribile fantasma; non vedevo che un deserto intorno a me, non concepivo come ci si possa assoggettare alle cure giornaliere che esige la vita, essendo sicuri che queste cure non condurranno a nulla. Questo pensiero mi occupava talmente, che credevo quasi di perderne la ragione.
In verità, mio caro amico, il mondo non conosce i suoi veri interessi. Converrei, se si vuole, che la virtú come tutto quello che è bello e come tutto quello che è grande, non sia che un’illusione. Ma se questa illusione fosse comune, se tutti gli uomini credessero e volessero essere virtuosi, se fossero compassionevoli, benevoli, generosi, magnanimi, pieni d’entusiasmo; in una parola, se tutto il mondo fosse sensibile (perché io non faccio nessuna differenza tra la sensibilità e quello che si chiama virtú), non si sarebbe piú felici? O, un individuo non troverebbe mille risorse nella società? Questa non dovrebbe applicarsi a realizzare le illusioni quanto le sarebbe possibile, poiché la felicità dell’uomo non può consistere nella realtà?
Nell’amore, tutte le gioie che provano le anime volgari, non valgono il piacere che può dare un solo istante di rapimento e di emozione profonda. Ma come fare perché questo sentimento sia durevole, o che si rinnovi spesso nella vita? dove trovare un cuore che gli risponda? Molte volte ho evitato, durante alcuni giorni, d’incontrare l’oggetto che mi aveva incantato in un sogno delizioso. Sapevo che quell’incanto sarebbe stato distrutto avvicinandosi alla realtà. Tuttavia pensavo sempre a quell’oggetto, ma non lo consideravo nella sua base reale; lo contemplavo nella mia immaginazione, come m’era apparso nel sogno. Era una follia? una fantasticheria? Ne giudicherete voi.
È vero che l’abitudine di riflettere, che è sempre propria degli spiriti sensibili, toglie spesso la facoltà di agire e anche di godere. La sovrabbondanza della vita interiore spinge continuamente l’individuo verso l’esterno, ma nello stesso tempo fa in modo che egli non sappia come regolarsi. Egli abbraccia tutto, vorrebbe essere sempre riempito e tuttavia tutti gli oggetti gli sfuggono, proprio perché sono troppo piccoli per la sua capacità. Egli esige anche dalle sue minime azioni, dalle sue parole, dai suoi gesti, dai suoi movimenti, piú grazia e perfezione che non sia possibile all’uomo di raggiungere. Cosí, non potendo mai essere contento di se stesso, né cessare d’esaminarsi, ed essendo sfiduciato sempre sulle proprie forze, non sa fare quello che fanno tutti gli altri.
Cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che è dunque la vita? Non ne so nulla: vi amo, vi amerò sempre cosí teneramente, e cosí fortemente come ho amato un tempo quei dolci oggetti che la mia immaginazione si compiaceva di creare, quei sogni in cui voi fate consistere una parte di felicità. Infatti non appartiene che all’immaginazione di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di cui sia capace. La vera saggezza consiste nel cercare questa felicità nell’ideale, come voi fate. Quanto a me, rimpiango quel tempo in cui m’era permesso di cercare questa felicità, e vedo con una sorta di paura che la mia immaginazione diventa sterile, e mi ricusa tutti i soccorsi che essa mi prestava un tempo). Tutte le opere, I, pp. 1165-1166.
8 Le varianti di Alla sua donna si leggono in G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 458-475.